Il dramma silenzioso dei voti temporanei: chiamati a vivere nella verità

La vita consacrata tra chiarezza e verità

Di seguito pubblichiamo una nostra traduzione dallo spagnolo, di un articolo pubblicato sul Sito Vida Religiosa il 21 giugno scorso, una riflessione molto attuale sulla formazione delle giovani di voti temporanei: le difficoltà e le sfide.

Ringraziamo Sr. Gemma Morató i Sendra, OP che ci ha autorizzato la pubblicazione del suo articolo sul nostro sito.

Sarebbe interessante un vostro feedback su questo tema!

La vita consacrata sta attraversando un periodo di chiarezza e sincerità, ma ancora poche persone osano affrontare questioni che causano disagio o generano resistenze. Tra le sue numerose sfide, una delle più dolorose – e meno affrontata – è il periodo dei voti temporanei.

Non si tratta semplicemente di una fase di transizione tra il noviziato e la professione perpetua, ma di un tempo critico ed esistenziale ed esigente– in cui si esce dalla bolla del noviziato per entrare in una comunità e in una missione specifiche – in cui molte persone consacrate si dibattono tra la fedeltà al cammino intrapreso e il peso delle proprie incertezze, dei propri silenzi e delle proprie paure.

Oltre ad affrontare, in alcuni contesti, una formazione segnata dall’infantilismo, un buon numero di persone consacrate – professionisti e, in alcuni casi, già consolidate nella loro maturità – sono sottoposte a una fase che le riduce a una situazione di dipendenza, sfiducia o invisibilità.

Ciò non solo blocca la loro crescita personale, ma impedisce anche alla congregazione stessa di evolvere e di rispondere in modo appropriato, efficiente e devoto alle attuali sfide della vita fraterna e della missione comunitaria.

1. Un periodo vulnerabile

Il periodo dei voti temporanei, che canonicamente può durare fino a nove anni, dovrebbe essere un momento di sereno discernimento, di autentica esperienza comunitaria e di crescente identificazione con il carisma.

Ma per molti consacrati, giovani o meno giovani, diventa una valle di insicurezza, delusione o frustrazione: non si sentono liberi di parlare, temono di essere giudicati per i loro dubbi o preoccupazioni e sperimentano una solitudine spirituale di cui raramente si parla.

Molti superiori e formatori hanno ereditato schemi rigidi che premiano l’obbedienza formale e l’uniformità di pensiero. Alcuni concedono ancora favoritismi o protezione a chi non li contraddice mai, trasformandoli nel modello ideale – o addirittura nel prototipo intoccabile – della persona consacrata, o soprattutto della donna consacrata “perfetta”.

Ma la fedeltà non è conformismo, e l’obbedienza evangelica non è sottomissione psicologica. La libertà interiore è indispensabile per discernere la volontà di Dio; senza questa libertà, ogni processo formativo è falsificato.

2. Una formazione che a volte non forma

Si nota spesso che la formazione durante lo juniorato soffre di carenze significative e, anziché formare, deforma. Ciò che manca:

✅️Un accompagnamento personale autentico, in cui il dialogo non si limiti a verifiche periodiche – con valutazioni che impediscono di esprimere i nostri veri pensieri e con domande che, in alcuni casi, rasentano l’irrilevante o l’assurdo – ma apra piuttosto spazio all’umano, allo spirituale e all’emotivo.

✅️Preparazione di formatrici (sia interne che esterne), che non sempre dispongono degli strumenti pedagogici, psicologici, teologici e persino culturali necessari per accompagnare processi complessi e personali.

✅️Di sorelle testimoni di una vita dedicata; di comunità che accolgono veramente; e di spazi che diano ispirazione e significato a coloro che sono chiamate a essere continuatrici del carisma che affermiamo di amare.

✅️Smettete di concepire questa fase come una mera esecuzione di consigli evangelici o una ripetizione di formule apprese, e muovetevi verso la promozione di un vero radicamento nel carisma e di un’esperienza di appartenenza che libera, umanizza e fa sentire a casa.

✅️Soprattutto, ascoltate: un ascolto vero e maturo, capace di sostenere una crisi senza imporre una soluzione rapida o squalificare una ricerca onesta.

La tragedia non è quando una persona decide di non continuare; ciò che è veramente tragico è quando si sente costretta a rimanere per paura, o quando se ne va senza essere stata veramente ascoltata. O, peggio ancora, quando viene ostracizzata per aver espresso la propria opinione, mettendo in discussione metodi, stili o dinamiche strutturali dell’attuale funzionamento della congregazione.

O quando vengono scoperti casi di abusi di ogni genere, che mettono in discussione persone consacrate che, in alcuni contesti, sono state considerate “intoccabili” o di una presunta “categoria”.

Spesso è più facile giudicare chi se ne va che chiedersi onestamente cosa è stato fatto – o cosa non è stato fatto – per accompagnarlo nel suo cammino.

Questo dimentica allora il principio del favor vocationis, secondo cui, dati ragionevoli segni di vocazione e in assenza di gravi motivi che lo impediscano, il cammino vocazionale deve essere incoraggiato, sempre nel rispetto della dignità e promuovendo la crescita spirituale, umana e comunitaria, e con grande libertà, incoraggiando la scelta di vita di ogni persona.

Favor vocationis non è una formula vuota, ma un atteggiamento fondamentale che ispira un’apertura prudente, una pazienza operosa e un discernimento permeato di carità e verità.

Lo ricorda Vita Consecrata, n. 65, quando sottolinea che la formazione deve essere guidata dalla fiducia, dal rispetto del ritmo personale e dalla centralità del Vangelo come criterio ultimo.

Pertanto, in situazioni di ragionevole dubbio o difficoltà superabili, la linea d’azione logica non è quella di bloccare il cammino o interrompere prematuramente il processo, ma piuttosto di offrire più tempo, maggiore sostegno e un ascolto più profondo. La carità non impone né affretta; sostiene, attende e accompagna.

3. Perché non osano parlare apertamente?

Molti consacrati di voti temporanei non osano esprimere i loro veri sentimenti per molteplici ragioni. Perché:

✅️Temono che qualsiasi critica venga interpretata come un segno di mancanza di vocazione e che questo porti alla loro espulsione dalla congregazione, poiché mettono in discussione le strutture, scuotono certe fondamenta o sollevano problemi reali che non vogliono affrontare.
✅️Hanno imparato o interiorizzato che “obbedire” significa rimanere in silenzio e seguire.
✅️Non vogliono deludere coloro che hanno riposto in loro fiducia.
✅️Non trovano un ambiente di fiducia nella loro comunità, dove le loro idee – a volte quelle di un pompiere – abbiano un posto e possano essere ascoltate senza essere derise o squalificate.

La paura di essere fraintesi, di essere considerati “immaturi”, “problematici e ribelli” o “poco spirituali” soffoca ogni possibilità di onesto discernimento. Questo non è solo ingiusto: è profondamente anti-evangelico. Gesù non ha mai condannato il dubbio sincero.

Lui camminava con loro. Accompagnava chi non capiva, senza esigere una cieca lealtà, ma invitandolo a guardare più in profondità.

Chi è dunque capace di ascoltare, senza esitazione, qualunque cosa gli venga detta, senza giudizio, affinché quella persona possa crescere senza ferite e nella verità?

4. Il silenzio non è sempre una virtù

In molte comunità regna un silenzio che non è frutto di contemplazione, ma di paura. Un silenzio che nasconde domande senza risposta, ferite che non guariscono e decisioni vocazionali prese più per inerzia che per convinzione. Restiamo in silenzio per mantenere una pace che non libera, ma piuttosto evita i conflitti e nasconde le ferite.

Le statistiche lo confermano: molti di coloro che hanno fatto la professione perpetua avevano già perso la speranza molto tempo prima, ma non osavano parlare. Come possono sostenere il radicalismo evangelico se non sono stati capaci di vivere nella verità?

Il silenzio di chi soffre in segreto non è una virtù; è un segnale d’allarme. E nessuna fedeltà è possibile se non nasce dalla libertà e dalla verità.

5. Creare spazi di verità

Le congregazioni che sopravviveranno non saranno le più numerose, ma le più autentiche; quelle che si sentono veramente vicine alle loro sorelle e si lasciano toccare dalle loro ferite e dalle loro gioie.

Quelle che osano creare spazi di ascolto fraterno, discernimento comunitario e accompagnamento olistico.

Quelle che smettono di misurare la formazione in base agli anni di età o ai libri letti e iniziano ad apprezzare la crescita interiore, la libertà e la gioia del servizio.

Congregazioni libere da pregiudizi e invidie, dove si può parlare sinceramente, condividere e vivere la consacrazione nello stile di chi si è, non di ciò che ci si aspetta che si pretenda di essere.

Una comunità veramente fraterna non teme la verità e apre la strada. E un processo formativo maturo non cerca di formare cloni, ma persone che, sulla base della loro storia concreta, osano donare la propria vita, liberamente e consapevolmente.

6. La professione perpetua non dovrebbe essere una via di fuga

C’è chi professa in perpetuo perché sente di non poter tornare indietro, perché non vuole “fallire” o perché non vede altra alternativa.

Questo non onora né il carisma né la persona. La professione perpetua ha senso solo se è espressione di completa libertà, di una profonda esperienza di amore per Cristo, di una comunione viva con la comunità.

Come diceva Sant’Agostino: “Ama e fa’ ciò che vuoi”. Ma questo amore non può essere imposto, forzato o manipolato; deve essere illuminato, coltivato e accompagnato.

7. Percorsi di Speranza

La sfida è grande, ma non impossibile. Molte comunità stanno già ripensando i loro itinerari formativi, redigendo una nuova Ratio Formationis, formando meglio i loro formatori (scusate la ridondanza) e integrando psicologia, accompagnamento spirituale e lavoro comunitario. Lo Spirito continua a soffiare.

Solo una vita consacrata vissuta nella verità sarà credibile, feconda e trasformativa. Solo una formazione che forma nella libertà darà origine a persone capaci di amare fino all’estremo. E solo una comunità che ascolta sarà in grado di accogliere con misericordia chi è ancora in ricerca.

E, soprattutto, solo coloro che permettono la libertà di parola, accolgono con maturità le grida di ribellione e cercano in esse la verità che ispira il cammino, garantiranno che il senso di appartenenza metta radici e che la congregazione possa durare nel tempo.

Soprattutto in questi tempi fortemente polarizzati, dove la vita consacrata – vissuta autenticamente – è profondamente controculturale e testimonia l’unità nella diversità.

Così, il periodo dei voti temporanei può diventare un vero cammino verso una vita dedicata per sempre, vissuta nella verità e nella costante ricerca della Verità. E la verità, a volte, fa male. Ma solo essa ci rende liberi.

Suor Gemma Morató i Sendra, OP
Domenicane della Presentazione
gemmamoratosendra@gmail.com

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